Un chiuso silenzio che non cede.
Lei trema, sola.
Lo spavento le è entrato nel petto con un sibilo profondo.
L’angoscia le contrae gli angoli della bocca.
La sofferenza la tocca quasi fuoco.
Lei ha perso l’amata sorella sul finire dell’estate, quando le foglie iniziano a rinsecchirsi e le nuvole ad addensarsi in cielo.
Simili nel corpo e nell’animo, hanno condiviso tutto, giorni, notti, risvegli.
Non è semplice dolore ciò che Lei ora sopporta, ma una sorta di nausea malvagia, un malessere fisico, un’amputazione: qualcosa che si traduce in un denso vuoto dai confini non definibili. Un’angosciosa assenza che, nel suo perdurare, acquista le forme di una più acuta presenza.
Il pensiero ossessivo della sorella le alberga nella mente come un tarlo e rende le sue notti insonni e sorde. Ogni sera, all’imbrunire, pone le fotografie della sorella sul cuscino del letto che con lei condivideva, come per sentirsela ancora accanto, come per udire ancora il suo respiro. Ma ogni volta che il suo sguardo si pone su quelle immagini, la mancanza rivive come una sensazione logorante. Ogni volta è lo strappo, ogni volta è la morte. Ogni volta le sembra di essere proiettata e sospesa in una dimensione lontana, in un altro luogo, un non-luogo avvolto da visioni e da un’aspra nebbia che non le consente di vedere un domani.
Solo l’insistente preghiera riesce, di tanto in tanto, a coprire d’ombra il morso aguzzino del dolore che feroce ed assillante la insegue e le gravita attorno; solo la fede profonda riesce a far assumere al vuoto, all’assenza e al tormento, il colore dell’attesa. L’attesa di un ritorno, o di un sonno profondo che non possa avere termine che nel giorno del ricongiungimento, oppure, ancora, l’attesa di qualcosa in grado di consumare l’angoscia e colmare il vuoto dell’assenza. Solamente lo scorrere lento delle notti e dei giorni le permetterà di liberarsi di quel tarlo morboso e trovare un fine a quell’attesa.
E fu di nuovo giorno.
Un aperto silenzio, un dolce tacere.